Uomo pigro, onesto, tranquillo

La via è lunga. Parte dalla città e arriva alla periferia che è proprio campagna.

La città non è grande, ma ha tutti i difetti della grande città e nessuno dei pregi.

Ci sono nata, cresciuta e con molta probabilità ci finirò i miei giorni.

All’inizio la via ha un semaforo, alcuni edifici di tre o quattro piani e dei negozi. Ci sono due agenzie immobiliari e pare strano per una via che finisce dentro la campagna.

La casa è sulla sinistra, allontanandosi dal semaforo. Ha avuto anni di gloria grazie all’uomo e alla donna che ci abitavano insieme a un figlio. Lei operosa all’interno, il marito infaticabile all’esterno. Il figlio ci abitava e basta, la sua partecipazione si limitava all’utilizzo dello spazio sotto la pergola, perfetto per parcheggiare l’auto.

Lei, la madre, passava le giornate a pulire e a lustrare.

Settimanalmente si dedicava alle finestre rischiando la vita ogni volta. Era bassa e per riuscire a pulire fino in alto la parte esterna, saliva sul davanzale aiutandosi con una sedia e si sporgeva, straccio alla mano, in modo pericolosissimo. Che io sappia non è mai caduta o comunque per certo non è morta cadendo da una di quelle finestre.

Dico “per certo” perché sono stata testimone della sua dipartita.

L’uomo, il padre, era basso, più della moglie che non superava il metro e cinquantacinque. Dico questo perché ho un certo occhio per la statura delle persone, sviluppato dopo anni passati a prendere misure di fianchi, vita, spalle, seno, lunghezze varie. Era proprio basso e aveva anche delle forme strane. La testa ad esempio era sproporzionata, come le braccia che erano troppo lunghe per quel busto e quelle gambe corte e tozze. Tutta quell’imprecisione però riusciva a realizzare opere magnifiche in giardino.

Il giardino della casa dava sulla strada, era lungo e non troppo profondo. Dal marciapiedi si riusciva a vederlo. Alberi da frutto, aiuole, tutto maniacalmente perfetto, ma di una perfezione che apparteneva a un altro mondo, forse a quello delle fiabe dove le piante sono animate e folletti e strane creature vivono le loro difficili esistenze.

L’uomo, il padre, curava quotidianamente piante di ogni tipo e fiori tanto belli quanto insoliti per un giardino di questo mondo. L’erba era sempre tagliata alla giusta altezza, ma la cosa che rendeva il giardino davvero singolare era la grande quantità di rami e pezzi di tronco dalle forme animalesche sistemati ovunque, ma con gusto. Serpenti, orsi, cervi, uccelli, tutti perfettamente forgiati dalla natura, nessun intervento dell’uomo sembrava aver collaborato alla creazione di quel catalogo animale, quell’enciclopedia di esseri di legno. L’uomo aveva saputo collocarli nella giusta posizione, in modo che dalla strada sembrassero reali. Il risultato nel suo insieme era bello e inquietante allo stesso tempo.

Io abitavo dall’altro lato della strada, in una piccola laterale, proprio vicino la scuola. Era un bell’appartamento, luminoso e comodo. Dalla finestra della camera potevo vedere la casa e una buona porzione del giardino. Nella mia abitazione ci stavo poco per via del lavoro al laboratorio. Ci andavo per dormire, sempre che quello che faccio io la notte possa chiamarsi dormire. A pranzo ci tornavo spesso soprattutto nell’ultimo periodo, quando il lavoro era calato. Prima no, prima mangiavo qualcosa di veloce al laboratorio.

Il laboratorio era più avanti, dopo l’incrocio con l’edicola, proprio di fronte al macellaio. Continuava a resistere, e io con lui. Non sono mai riuscita a chiamarlo sartoria, anche se di quello si trattava. Il termine laboratorio mi è sempre sembrato più adeguato, più vicino al concetto di creare. Fare vestiti non è solo misure, calcoli e fili, è arte. È vero che nell’ultimo periodo l’arte non serviva granché per stringere, accorciare o cambiare cerniere, ma per me sempre di arte si trattava.

Un giorno andai dal macellaio. La carne non mi piace, mi fa una specie di ribrezzo, ma ogni tanto mi sacrifico e la mangio. Il macellaio mi vede poco, ma ogni volta ci tiene a informarmi su ogni dettaglio della vita del quartiere. Il filone separazioni è il suo preferito, al secondo posto viene quello dei morti. “Ha sentito a chi è toccato ieri? Che disgrazia, una così brava persona. Aveva una certa età, niente da dire, ma non fosse stato per quel tram maledetto sarebbe ancora qui tra noi”. Finsi di aver capito di chi stesse parlando e buttai là qualche frase di quelle che si dicono in questi casi, quelle che in realtà vogliono dire “meglio a lui che a me”. Uscii col mio pacchetto disgustoso e proprio accanto alla vetrina della cartoleria vidi l’epigrafe. L’uomo, il padre se ne era andato lasciando la moglie, il figlio e la sorella Ada. Entrai in cartoleria con la scusa di acquistare delle matite, ma volevo avere informazioni più precise e quello era il posto giusto per averle. “Che disgrazia, non me ne parli. Tutta colpa di quel maledetto tram. Lo dico sempre io che quelle rotaie sono pericolose, ci si infilano dentro giuste, giuste le ruote della bicicletta e non hai scampo, cadi di sicuro. Poverino, aveva anche le borse della spesa, impossibile restare in piedi. Ma la sfortuna di battere la testa proprio sul marciapiedi, che tragedia. E la moglie poverina, per non parlare del figlio. Che tragedia”! Ascoltai il racconto, ma subito pensai che più che alle rotaie del tram della tragedia si dovessero incolpare le gambe corte dell’uomo. Probabilmente gambe anche poco più lunghe gli avrebbero consentito di mantenere l’equilibrio e di salvarsi la vita.

Non me la sentii di andare al laboratorio. Tornai indietro e mi fermai davanti la casa, le imposte erano chiuse. Il giardino e tutti gli animali di legno sembravano pietrificati, nessuna foglia o fiore osava muoversi nonostante la leggera brezza. Tornai a casa e passai l’intera giornata alla finestra. Dal giardino, quello che sembrava un orso mi fissava.

Alla donna toccò qualche anno dopo e a me toccò essere testimone. Non si è certo trattato di suicidio, la causa va ricercata nella lentezza. La lunghezza delle gambe non è certamente direttamente proporzionale alla velocità, ma le gambe della donna sembravano totalmente inadatte alla corsa. Tutto il suo corpo rimandava alla lentezza. Era ingrassata molto e l’unica cosa che poteva indossare erano dei camicioni a fiori a forma di tendone da circo. Non veniva più da tempo a farsi fare gli abiti al laboratorio, diceva che ero troppo cara.

Le sbarre erano abbassate e io aspettavo all’ombra che passasse il treno dei 38 direzione Venezia. Stavo seduta sulla sella con una gamba giù e una sul pedale.

Il fatto che ogni volta ci si dimentica è che una volta ripartito dalla stazionetta il treno dei 38, le sbarre non si alzano subito perché da lì a poco passa un Frecciavattelapesca direzione Trieste. Passa velocissimo e non si ferma. Anche la donna non se ne ricordò. Ebbe la pessima idea di passare con la bicicletta a mano, convinta di non correre rischi. Non dovette chinarsi molto per passare sotto la sbarra. La guardavo distrattamente quando passò un fulmine e la portò via. Sarebbe più corretto dire che la sparpagliò via. Dissero che tra pezzi di bicicletta, camicione a fiori e carne fu un vero casino. A me venne da vomitare, girai la bici e scappai a casa.

Per due giorni non mi feci vedere in laboratorio certa che la lavorante si sarebbe arrangiata. Men che meno mi feci vedere in giro. Temevo si sapesse che io c’ero, che ero stata testimone diretta dell’accaduto, che ero stata in prima fila. Evitai anche di guardare in direzione della casa e del giardino per parecchio tempo anche se non riuscivo a smettere di pensare a cosa ne sarebbe stato di tutto quello spazio e di quel figlio rimasto orfano. Non era certo un ragazzino, anzi, ma provavo un sincero senso di vicinanza. Lo immaginavo solo e triste nella casa e nel giardino. L’unica compagnia potevano essere gli animali di legno.

Trascorsero i giorni e i mesi. Divenni più coraggiosa. Passavo e guardavo la casa, anche il giardino. Tutto ormai era trascurato, l’erba alta, le imposte sempre chiuse anche gli animali sembravano morti.

Mi accorsi che anche l’auto del figlio era sparita da sotto la pergola. Seppi che si era trasferito. Aveva vinto un concorso e aveva cambiato città.

La casa rimase così per quasi due anni, disabitata e triste, Il giardino ormai completamente ricoperto da erbacce era lontanissimo dagli antichi splendori e gli animali di legno non si riconoscevano più, sepolti vivi da ortiche e gramigna.

Alcuni giorni fa ho saputo che la casa è stata acquistata e sono veramente contenta. Ora ci abita un uomo solo. Sembra un uomo pigro, onesto e tranquillo.

Informazioni su menteminima

Metto i baffi così non mi riconosco.
Questa voce è stata pubblicata in Uncategorized. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento