É Natale, insomma, più o meno.VEDO I MORTI

Era vero. Io vedevo i morti. Non solo li vedevo, ma avevo con loro delle vere conversazioni. Li incontravo nei luoghi più disparati, al cinema, a casa di amici, al bar, al supermercato. Il primo incontro è avvenuto proprio al supermercato, in quello vicino casa mia, piccolo, ma ben rifornito. Ero alla cassa, in fila a una delle due aperte. Accanto a me un cestone con alcune offerte del mese. Nulla di interessante, solo una piastra per lisciare i capelli, di quelle piccole per definire poche ciocche o la frangia. Decido di prenderla e proprio nel metterla nel carrello noto che la fila accanto alla mia, come sempre, è più veloce, sì perché quel tipo vestito di bianco qualche secondo fa mi stava dietro, mentre ora mi sta accanto. È un tipo strano con un abito di lino bianco. Non vedo il volto perché sta rimestando in un cestone delle offerte nel lato opposto al mio ed è girato. È biondo, con un taglio un po’ lungo e sfilato. Si gira, è David Bowie. Non è il suo sosia, è lui veramente. So che è morto, ma non ho alcun dubbio: è David Bowie. Mi guardo in giro, ma nessuno sembra averlo riconosciuto. Cavolo, è David Bowie! nessuno di voi lo riconosce? Penso. A questo punto mi guarda, mi sorride, forse perché ho la bocca spalancata e lo sguardo incredulo. Sembra voler confermare la mia impressione. Sì, sono io, sembra dire, tutto ok. Poi guarda dentro il mio carrello, prende una cosa dal suo e mi dice che anche lui ha preso la piastra per capelli e mi chiede se secondo me è un buon acquisto. Parla con la sua voce da David Bowie, ma in italiano. La mia bocca è ancora spalancata. Sì, dico, mi sembra buona. Grazie, mi risponde, mentre avanza canticchiando tra sé, ma forse anche un po’ per me. È David Bowie, penso, ma David Bowie è morto, mi ridico. Guardo intorno e nessuno dà segni di averlo riconosciuto. Anzi, sembra proprio che nessuno l’abbia notato. Bello è bello, non c’è dubbio, alto, magro, tutto vestito di bianco, come non notarlo, come non riconoscerlo? Arriviamo contemporaneamente alla cassa, io alla mia, lui alla sua. Osservo la cassiera, non batte ciglio, non lo guarda. Non gli chiede nemmeno se paga con i buoni pasto o se gli serve qualche busta. Ha più o meno la mia età, non è possibile che non sappia chi è David Bowie, che non lo riconosca. Lui sistema le sue cose, non guarda in giro, è tranquillo. Incrocio il suo sguardo, mi accorgo che continuo a guardarlo con la bocca aperta, mi sento scema, ma non riesco a capire cosa stia succedendo. E come se nessuno lo vedesse, non lo riconoscono perché non lo vedono, penso. Ora siamo vicini, entrambi cerchiamo il bancomat per pagare. Lui mi sorride di nuovo e se ne esce con un “They say your life is going very well They say you sparkle like a different girl But something tells me that you hide When all the world is warm and tired You cry in the dark Well so do I”. Canta sottovoce, posso sentirlo solo io. Mi tremano le gambe, vengo assalita da una sorta di panico. Abbasso lo sguardo e via in un attimo lui è sparito. Intorno a me tre persone che mi chiedono se mi sento bene. Sono sdraiata. Forse un calo di pressione, con questo caldo dice la cassiera. Tutto bene, li rassicuro, tutto bene. Prendo la mia spesa ed esco. Sono salita in auto con la sensazione di aver vissuto uno strano incubo, anzi no, di aver immaginato tutto, di aver vissuto una sorta di sdoppiamento, un’altra realtà, un’altra me, Continuava a girarmi per la testa quella canzone, “Letter to Hermione”, quelle parole, parlavano di me, ma che c’entravo io con Ermione? E poi quale Ermione?

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Senza inganno

La mattina mi lavo, mi vesto e mi trucco, ma solo un poco. Faccio tutto senza guardarmi allo specchio, vado a memoria. Oggi mi è caduto lo sguardo, in basso. I bottoni della camicetta erano tutti spettinati. È allora che ho visto i miei occhi riflessi, mi guardavo come si guardano i vecchi e allora, un po’, mi sono sorrisa.

Foto Andreakissartist

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Penso semplice

Una volta avevo una finestra. Era un orologio. No, era un calendario.
Dava sul dietro, a Ovest.
L’aprivo e stendevo i panni quando c’era il sole.
D’inverno la richiudevo in fretta.
Mi diceva che il buio stava arrivando o che avrebbe fatto caldo.
Si apriva sul giardino di una casa. Nel giardino c’era un giuggiolo, che non ha un nome poetico, ma che se lo sai guardare è bello anche d’inverno.
Ora ho un terrazzo dove stendo i panni. Guarda a Est.
Ieri stendevo i panni. Giù, in giardino, il rosmarino cresce, il ciliegio è pieno di frutti piccoli e verdi. Le rose non ci sono più, temo che il giardiniere le abbia eliminate. Non fa per me il lavoro del giardiniere, ho pensato. Poi ho pensato che mi manca la finestra che guarda a Ovest.

La foto non c’entra, ma il fiore è bello

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Sassi


  • – È gentile con te la vita?
  • -Tira sassi con la fionda.
  • Ha un’ottima mira, ma io li salto.
  • – Cosa? I sassi?
  • Sì, sì, non li schivo, non mi abbasso, non mi sposto. Salto. Io li salto.
  • Passano sotto i miei piedi,
  • non meritano altro.
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Uomo pigro, onesto, tranquillo

La via è lunga. Parte dalla città e arriva alla periferia che è proprio campagna.

La città non è grande, ma ha tutti i difetti della grande città e nessuno dei pregi.

Ci sono nata, cresciuta e con molta probabilità ci finirò i miei giorni.

All’inizio la via ha un semaforo, alcuni edifici di tre o quattro piani e dei negozi. Ci sono due agenzie immobiliari e pare strano per una via che finisce dentro la campagna.

La casa è sulla sinistra, allontanandosi dal semaforo. Ha avuto anni di gloria grazie all’uomo e alla donna che ci abitavano insieme a un figlio. Lei operosa all’interno, il marito infaticabile all’esterno. Il figlio ci abitava e basta, la sua partecipazione si limitava all’utilizzo dello spazio sotto la pergola, perfetto per parcheggiare l’auto.

Lei, la madre, passava le giornate a pulire e a lustrare.

Settimanalmente si dedicava alle finestre rischiando la vita ogni volta. Era bassa e per riuscire a pulire fino in alto la parte esterna, saliva sul davanzale aiutandosi con una sedia e si sporgeva, straccio alla mano, in modo pericolosissimo. Che io sappia non è mai caduta o comunque per certo non è morta cadendo da una di quelle finestre.

Dico “per certo” perché sono stata testimone della sua dipartita.

L’uomo, il padre, era basso, più della moglie che non superava il metro e cinquantacinque. Dico questo perché ho un certo occhio per la statura delle persone, sviluppato dopo anni passati a prendere misure di fianchi, vita, spalle, seno, lunghezze varie. Era proprio basso e aveva anche delle forme strane. La testa ad esempio era sproporzionata, come le braccia che erano troppo lunghe per quel busto e quelle gambe corte e tozze. Tutta quell’imprecisione però riusciva a realizzare opere magnifiche in giardino.

Il giardino della casa dava sulla strada, era lungo e non troppo profondo. Dal marciapiedi si riusciva a vederlo. Alberi da frutto, aiuole, tutto maniacalmente perfetto, ma di una perfezione che apparteneva a un altro mondo, forse a quello delle fiabe dove le piante sono animate e folletti e strane creature vivono le loro difficili esistenze.

L’uomo, il padre, curava quotidianamente piante di ogni tipo e fiori tanto belli quanto insoliti per un giardino di questo mondo. L’erba era sempre tagliata alla giusta altezza, ma la cosa che rendeva il giardino davvero singolare era la grande quantità di rami e pezzi di tronco dalle forme animalesche sistemati ovunque, ma con gusto. Serpenti, orsi, cervi, uccelli, tutti perfettamente forgiati dalla natura, nessun intervento dell’uomo sembrava aver collaborato alla creazione di quel catalogo animale, quell’enciclopedia di esseri di legno. L’uomo aveva saputo collocarli nella giusta posizione, in modo che dalla strada sembrassero reali. Il risultato nel suo insieme era bello e inquietante allo stesso tempo.

Io abitavo dall’altro lato della strada, in una piccola laterale, proprio vicino la scuola. Era un bell’appartamento, luminoso e comodo. Dalla finestra della camera potevo vedere la casa e una buona porzione del giardino. Nella mia abitazione ci stavo poco per via del lavoro al laboratorio. Ci andavo per dormire, sempre che quello che faccio io la notte possa chiamarsi dormire. A pranzo ci tornavo spesso soprattutto nell’ultimo periodo, quando il lavoro era calato. Prima no, prima mangiavo qualcosa di veloce al laboratorio.

Il laboratorio era più avanti, dopo l’incrocio con l’edicola, proprio di fronte al macellaio. Continuava a resistere, e io con lui. Non sono mai riuscita a chiamarlo sartoria, anche se di quello si trattava. Il termine laboratorio mi è sempre sembrato più adeguato, più vicino al concetto di creare. Fare vestiti non è solo misure, calcoli e fili, è arte. È vero che nell’ultimo periodo l’arte non serviva granché per stringere, accorciare o cambiare cerniere, ma per me sempre di arte si trattava.

Un giorno andai dal macellaio. La carne non mi piace, mi fa una specie di ribrezzo, ma ogni tanto mi sacrifico e la mangio. Il macellaio mi vede poco, ma ogni volta ci tiene a informarmi su ogni dettaglio della vita del quartiere. Il filone separazioni è il suo preferito, al secondo posto viene quello dei morti. “Ha sentito a chi è toccato ieri? Che disgrazia, una così brava persona. Aveva una certa età, niente da dire, ma non fosse stato per quel tram maledetto sarebbe ancora qui tra noi”. Finsi di aver capito di chi stesse parlando e buttai là qualche frase di quelle che si dicono in questi casi, quelle che in realtà vogliono dire “meglio a lui che a me”. Uscii col mio pacchetto disgustoso e proprio accanto alla vetrina della cartoleria vidi l’epigrafe. L’uomo, il padre se ne era andato lasciando la moglie, il figlio e la sorella Ada. Entrai in cartoleria con la scusa di acquistare delle matite, ma volevo avere informazioni più precise e quello era il posto giusto per averle. “Che disgrazia, non me ne parli. Tutta colpa di quel maledetto tram. Lo dico sempre io che quelle rotaie sono pericolose, ci si infilano dentro giuste, giuste le ruote della bicicletta e non hai scampo, cadi di sicuro. Poverino, aveva anche le borse della spesa, impossibile restare in piedi. Ma la sfortuna di battere la testa proprio sul marciapiedi, che tragedia. E la moglie poverina, per non parlare del figlio. Che tragedia”! Ascoltai il racconto, ma subito pensai che più che alle rotaie del tram della tragedia si dovessero incolpare le gambe corte dell’uomo. Probabilmente gambe anche poco più lunghe gli avrebbero consentito di mantenere l’equilibrio e di salvarsi la vita.

Non me la sentii di andare al laboratorio. Tornai indietro e mi fermai davanti la casa, le imposte erano chiuse. Il giardino e tutti gli animali di legno sembravano pietrificati, nessuna foglia o fiore osava muoversi nonostante la leggera brezza. Tornai a casa e passai l’intera giornata alla finestra. Dal giardino, quello che sembrava un orso mi fissava.

Alla donna toccò qualche anno dopo e a me toccò essere testimone. Non si è certo trattato di suicidio, la causa va ricercata nella lentezza. La lunghezza delle gambe non è certamente direttamente proporzionale alla velocità, ma le gambe della donna sembravano totalmente inadatte alla corsa. Tutto il suo corpo rimandava alla lentezza. Era ingrassata molto e l’unica cosa che poteva indossare erano dei camicioni a fiori a forma di tendone da circo. Non veniva più da tempo a farsi fare gli abiti al laboratorio, diceva che ero troppo cara.

Le sbarre erano abbassate e io aspettavo all’ombra che passasse il treno dei 38 direzione Venezia. Stavo seduta sulla sella con una gamba giù e una sul pedale.

Il fatto che ogni volta ci si dimentica è che una volta ripartito dalla stazionetta il treno dei 38, le sbarre non si alzano subito perché da lì a poco passa un Frecciavattelapesca direzione Trieste. Passa velocissimo e non si ferma. Anche la donna non se ne ricordò. Ebbe la pessima idea di passare con la bicicletta a mano, convinta di non correre rischi. Non dovette chinarsi molto per passare sotto la sbarra. La guardavo distrattamente quando passò un fulmine e la portò via. Sarebbe più corretto dire che la sparpagliò via. Dissero che tra pezzi di bicicletta, camicione a fiori e carne fu un vero casino. A me venne da vomitare, girai la bici e scappai a casa.

Per due giorni non mi feci vedere in laboratorio certa che la lavorante si sarebbe arrangiata. Men che meno mi feci vedere in giro. Temevo si sapesse che io c’ero, che ero stata testimone diretta dell’accaduto, che ero stata in prima fila. Evitai anche di guardare in direzione della casa e del giardino per parecchio tempo anche se non riuscivo a smettere di pensare a cosa ne sarebbe stato di tutto quello spazio e di quel figlio rimasto orfano. Non era certo un ragazzino, anzi, ma provavo un sincero senso di vicinanza. Lo immaginavo solo e triste nella casa e nel giardino. L’unica compagnia potevano essere gli animali di legno.

Trascorsero i giorni e i mesi. Divenni più coraggiosa. Passavo e guardavo la casa, anche il giardino. Tutto ormai era trascurato, l’erba alta, le imposte sempre chiuse anche gli animali sembravano morti.

Mi accorsi che anche l’auto del figlio era sparita da sotto la pergola. Seppi che si era trasferito. Aveva vinto un concorso e aveva cambiato città.

La casa rimase così per quasi due anni, disabitata e triste, Il giardino ormai completamente ricoperto da erbacce era lontanissimo dagli antichi splendori e gli animali di legno non si riconoscevano più, sepolti vivi da ortiche e gramigna.

Alcuni giorni fa ho saputo che la casa è stata acquistata e sono veramente contenta. Ora ci abita un uomo solo. Sembra un uomo pigro, onesto e tranquillo.

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No, grazie

A settembre inoltrato il cimitero si risveglia. Parcheggio pieno, la fiorista bionda e nervosa è agitata per la gran fila di clienti. Che freddo questa mattina, dico io. Meglio per i fiori, dice lei.
Io vado in quell’altro cimitero, quello di Marghera.
Anche questo cimitero è come risvegliato. È tutto un ripulire tombe, un sistemare fiori. Togliere quelli finti, mettere quelli veri.
Un tempo pensavo che avrei voluto essere seppellita sotto terra, ora non mi interessa proprio, non è affar mio.
Percorro la stradina con la siepe ribelle a destra e il melo a sinistra. I frutti non ci sono più, ma resta bellissimo, bello in tutte le stagioni. Ora devo girare e poi salire i gradini. Ma prima ci sono i loculi della signora Anna e del signor Alvise. Sono posti in alto orizzontalmente e hanno due bei vasi ai lati sempre pieni di bellissimi fiori freschi che sistema un signore sui sessanta ben portati alto, moro e magro. Ha una manualità da fiorista, lo incontro ogni settimana. Porta lilium che abbina con gran gusto ad altri fiori, tono su tono o con raffinati contrasti di colore. Prepara i mazzi, poi sale su in alto con la scala del cimitero e li sistema con cura dentro i vasi.
Da due mesi, ma anche più, nei vasi solo fiori secchi, ormai irriconoscibili e a me viene una tristezza che mi vien da piangere e piango, tanto il cimitero è il posto più giusto per farlo e poi avrei cominciato comunque un minuto dopo, saliti i gradini e girata sulla destra. Sono preoccupata per il signore alto, moro e magro e mi dispiace per i signori Anna e Alvise che non hanno più i loro perfetti fiori. No, niente acrobazie per il mio corpo morto.

Inviato da iPad

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Tempo

Oggi il mare è piatto. Solo la superficie trema per una leggera brezza che arriva da Est. La coppia a sinistra è sui settanta. Si coccolano, si abbracciano e si baciano. La signora più avanti li guarda sorridendo e allora loro le dicono che si vogliono bene, tanto bene. Non portano la fede. Lei ha una collana d’oro con un pendaglio, una medaglietta, che ogni tanto porta alle labbra e bacia come si bacerebbe una reliquia. A destra un’altra coppia che fregandosene di ogni regola parla al telefono col vivavoce. Dall’altro capo una collega di lui. Sono infermieri. Si accordano per una serie di cene da fare dopo alcune messe di suffragio in ricordo di amici mancati. Dietro, la solita nonna di Merano che afferma convinta che la cucina italiana non è poi sto granché, nulla a che vedere con quella dell’Alto Adige. Più in là una bella signora che porta una fasciatura al braccio sinistro. La mimetizza con una specie di bandana, ma a giudicare da come la sistema ogni tanto e da come la guarda temo di sapere che cos’è. Stamane ho letto la stessa idea in due posti differenti. Più o meno diceva la stessa cosa: cercate di essere felici e tenete alla felicità di chi vi sta accanto.
Perché si sa, il tempo è un gran bastardo (questo l’ho aggiunto io)

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Prendi questa mano

A volte ho l’impressione di saperne di più di quel che ho coscienza di sapere.
Questi anni difficili, la paura, l’assenza di desiderio di condivisione delle cose più facilmente condivisibili della vita, la necessità di coltivare il ricordo scrivendolo, tutto, mi fa sospettare che non sia un caso.
Quando ero bambino non dormivo perché temevo di morire nel sonno. Non era la morte in sé a spaventarmi, ma l’idea di passare dallo stato di incoscienza alla morte. Temevo di non riuscire a riconoscere il passaggio vivo/morto di non cogliere il mio ultimo respiro. Avevo in mente come morte perfetta quella dell’eroe che esala il suo ultimo respiro tra le braccia dell’amata, ucciso dallo sparo di una pistola bastarda. Prima di morire avrei potuto capire tutto, avrei sentito l’attimo esatto, magari avrei anche sorriso.
Ora non dormo per altri motivi ma continuo a coltivare la paura di una morte inconsapevole. In verità da tempo ho spostato lo sguardo. Guardo alla vita inconsapevole, quella portata dal degrado della mente e ne ho il terrore. Capita che mi svegli e che per alcuni secondi non mi riconosca, non sappia chi sono e dove sono. Capita che non abbia la capacità di decidere quale parte del corpo muovere, che debba fare uno sforzo per cercare di rimettere insieme tutti i pezzi di un corpo e di una identità che so esserci, che so evocare ma non riesco a riempire.
Vengo assalito dal panico e allora mi alzo vado al bagno e davanti allo specchio mi denudo e guardo ogni centimetro di pelle e cerco di riconoscerlo, nomino a voce alta ogni organo, ogni parte del mio corpo per ridargli consistenza. Poi passo in rassegna i nomi delle persone che ho incontrato nella giornata, i luoghi dove sono stato, il pranzo, la cena. Cerco di ricordare i pensieri, le sensazioni. Devo ricostruire tutto, fotografarlo. A volte ci vogliono ore per calmarmi e rimettermi a letto a dormire.
Una notte ho sognato una zingara, la stessa che da giovane mi lesse la mano e mi raccomandò di non raccontare mai a nessuno il segreto che avevo e mi intimò di non mostrare mai più ad alcuno quelle linee. La zingara nel sogno guardava nuovamente la mia mano e con un tono tristissimo mi svelava un destino che ahimè già conosco.

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Fiori

L’ho beccato, è lui. É un vecchio e dico vecchio perché comunque lo rispetto. Chiamarlo anziano non va bene e poi anche io non voglio essere anziana, voglio essere vecchia, mi pare più dignitoso. Cammina lentamente con le mani intrecciate dietro la schiena. Si ferma ogni tanto fingendo di aver trovato il suo caro, accenna anche a un segno della croce. Ma quanti morti avrà in questo cimitero. Alla sua età ne avrà tanti. Mi è venuto in mente Oscar che a novant’anni diceva sono rimasto solo, sono tutti morti. Ma il vecchio finge. In realtà controlla i fiori, cerca gli statici per rubarli. I miei li ha fatti fuori diverse volte, ma l’ho fregato ora li porto freschi a costo di andare ogni due giorni. Niente, non ha trovato niente di buono e allora è andato via. No, è là seduto su una panchina. Parla con un vecchio come lui. Sarà un complice. Chissà quanto rende rubare fiori statici al cimitero. Ma ora lo conosco. Stia attento.

Foto Andreakissartist

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Stare come un fiore reciso ad agosto

Martedì sono venuta e ho cambiato l’acqua ai fiori. Sì, ogni tanto provo quelli freschi, ma so che è un azzardo, che è sfidare questo sole che sembra si sia avvicinato un po’, tanto è caldo. L’ornitogallo che tanto ti aveva divertito non c’era e allora ho preso uno che non so come si chiama, ma pareva avesse dentro il suono del limone. Domani prenderò fiori stabilizzati. Lo so, il solo pronunciare quella parola fa stridere il gesso sulla lavagna, che a questo mondo ci sarà poi una cosa stabile? Cerco di venire presto così evito la liquefazione. Ciao.

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